domenica
6 maggio 2018
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STAMPA
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Fondi insufficienti o stanziati quando le tragedie sono già avvenute Ma se i soldi ci sono, comitati e associazioni impediscono di usarli

NICOLA PINNA TORINO

Ci sono studi e ci sono mappe. Dettagliate, interattive, in grado di mostrare i rischi paese per paese, quartiere per quartiere, via per via. Eppure, la zona rossa del dissesto idrogeologico italiano non si restringe mai. Semmai si allarga e non solo per effetto dei cambiamenti climatici, che rendono sempre più imprevedibili gli effetti degli acquazzoni e delle piene dei fiumi.

Nel piano di messa in sicurezza delle città che fanno i conti con l’incubo delle frane e delle esondazioni, i fondi (stanziati sempre e solo all’indomani delle tragedie) di certo non sono stati sufficienti ma a dire il vero non sono mai mancati. In molti casi, a dirla tutta, sono stati sprecati.

Per tentare di ridurre i pericoli in tutte le Regioni, dalla martoriata Campania fino al Piemonte, ci sono anche tanti progetti e spesso sono già finanziati: opere che potrebbero rendere meno pericolosi i corsi d’acqua, piani per nuovo tipo di sviluppo urbanistico e per la delocalizzazione che consentirebbero di trascorrere sonni tranquilli agli oltre 7 milioni di italiani che vivono nei territori classificati.

E invece la gran parte degli interventi resta sulla carta. Perché gli interessi sono più forti della paura. E le barriere non si abbassano neanche di fronte ai quasi 1800 morti registrati negli ultimi 50 anni. «Gli ostacoli sono tanti, anche di fronte a progetti urgentissimi – dice Mauro Grassi, direttore della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico della presidenza del Consiglio -. A rallentare, e spesso bloccare, l’iter di iniziative di grande importanza sono comitati di quartiere e associazioni ma anche alcune amministrazioni comunali. È successo a Sarno, ma sta accadendo a Milano per la messa in sicurezza del Seveso e si sta ripetendo a Olbia, dove il sindaco ha bloccato la realizzazione delle vasche che salverebbero i quartieri da una nuova alluvione».

L’emergenza è massima e lo sanno tutti. Anche perché l’88% dei Comuni italiani, cioè 7145, ricade nella grande zona rossa tracciata dall’Ispra: quasi il 16% del territorio nazionale. Non bastasse questo, a far maturare le coscienze e a far capire che non si può rischiare, dovrebbe servire anche il bilancio dei danni: 7,6 miliardi di euro solo nel triennio 20132016, per arrivare – secondo l’Ance – a un totale di 67 miliardi dal 1944.

Nel frattempo, l’Unità di missione della presidenza del Consiglio ha scattato una fotografia che rende più chiara la situazione: per curare le ferite del nostro territorio saranno necessari non meno di 30 anni. E bisognerebbe realizzare 10 mila progetti che costerebbero circa 30 miliardi. «Dieci li abbiamo già individuati: serviranno a finanziare opere per i prossimi 7 anni» aggiunge il direttore di #Italiasicura, Mauro Grassi. «Stiamo lavorando in prospettiva e anche in sensibilizzazione: il rispetto del territorio è stato inserito nel Codice degli appalti, ma allo stesso tempo cerchiamo di
ostacolare le iniziative delle amministrazioni che vanno in senso contrario e facciamo in modo che i finanziamenti vengano dirottati verso progetti compatibili con l’esigenza di preservare il suolo».

Innalzare argini, dunque, non basta. I fiumi questa lezione ce l’hanno già data e più di una volta. Intorno ai corsi d’acqua, e alle zone a rischio smottamento, è necessario lasciare liberi gli spazi. Ma l’economia del cemento non sembra disposta al compromesso. «Il primo passo da fare è quello di cambiare l’approccio al problema, soprattutto a livello locale» commenta Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. «La prevenzione del rischio deve essere un filo comune nella pianificazione territoriale, non un capitolo a sé dell’attività di un’amministrazione. Va tenuta in considerazione sempre, quando si programma qualunque iniziativa. Altrimenti facciamo progetti per sistemare gli argini e poi costruiamo quartieri, scuole o centri commerciali in zone pericolose».

L’altro ostacolo che il Paese delle frane e della alluvioni non riesce a superare è quello dell’abusivismo. Le amministrazioni locali non hanno il coraggio di mettere in moto le ruspe, e le strutture costruite senza permessi in zone pericolose resistono come fortezze. «Il fondo per sostenere l’abbattimento delle opere abusive è ancora lì» denuncia Giorgio Zampetti di Legambiente, «non sono mai arrivate domande».

Nelle aree a rischio comunque resistono anche grandi quartieri, talvolta interi paesi: scuole, ospedali, migliaia e migliaia di case. Perché la fantomatica «delocalizzazione» è un’idea che ai sindaci non piace per niente.

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