Difendere il lavoro, difendersi dal lavoro: il nostro primo maggio, la nostra lotta quotidiana

Sono queste le traiettorie lungo le quali può essere interessante soffermarsi in questa giornata di lotta e riflessione. È veramente difficile pronunciare la parola festa mentre il governo Meloni si prepara a varare un altro “decreto 1 Maggio”, perfettamente inutile ad aggredire quelli che sono i cronici problemi di sicurezza, precarietà e qualità del lavoro, siamo arrivati al punto di dover sperare di rientrare a casa sani e salvi dai nostri posti di lavoro.

Le morti nel cantiere dell’Esselunga di Firenze e quelli presso la centrale idroelettrica del bacino di Suviana sono gli ennesimi tragici risultati di un utilizzo sistematico di un sistema di appalti e subappalti che diventa una giungla. E risalendo la piramide delle condizioni di lavoro, “scopriamo” che perdere la vita è l’apice di un altrettanto sistematico attacco ai diritti di chi lavora, che peraltro si ripercuote con intensità specifiche sulle lavoratrici e i lavoratori immigrati o migranti o facenti parte della comunità lbgtq+.

I corpi e le vite delle lavoratrici e dei lavoratori subiscono tanto gli effetti di politiche economiche e del lavoro assenti o inadeguate a confrontarsi con i fenomeni inflattivi e il rincaro delle risorse, quanto le ripercussioni di condizioni di lavoro insalubri e insicure sulla loro salute, fisica e mentale. È di pochi giorni fa un articolo della sociologa Francesca Coin che restituisce un panorama disarmante: uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dopo un sondaggio su 74mila lavoratori in 121 paesi, ha stimato che il 23% abbia subito forme di violenza fisica, sessuale o psicologica sul posto di lavoro.

In questo senso, l’unione tra difesa del lavoro e difesa dal lavoro è centrale perché diventa motore di una lotta più ampia: quella per rendere i nostri posti di lavoro più sicuri e democratici, sia attraverso le rappresentanze sia attraverso l’auto-organizzazione, per un welfare universale e gratuito per la tutela della salute a 360°. Sganciare il lavoro dal ricatto deve essere la rivendicazione principale, per permettere a tutte e tutti di vivere dignitosamente.

Impossibile non menzionare anche i risvolti ecologici del modo di produrre e di lavorare, a livello globale. L3 studios3 Paola Imperatore e Emanuele Leonardi nel loro libro “L’era della giustizia climatica” parlano chiaramente di un sistema, quello dello sviluppo sostenibile, della green economy e delle Conferenze per il Clima, che ha fallito. Ma come stiamo affrontando, come sistema-paese, la sfida della transizione ecologica? La risposta è semplice e amara: a colpi di delocalizzazioni industriali, licenziamenti collettivi, nessun tipo di investimento pubblico nei settori più impattanti, ma anche strategici per le politiche industriali. In Toscana, il caso della ex GKN di Campi Bisenzio è emblematico: da quasi 3 anni centinaia di operai, insieme al mondo accademico solidale, propongono piani di riattivazione industriale alla Regione e al MIMIT senza esito, mentre un’enorme campagna di azionariato popolare ha superato i 700K. È enorme lo scollamento tra la consapevolezza delle istituzioni e quella “dal basso” di che cosa serva per trasformare uno stabilimento in una fabbrica socialmente integrata.
Per questo abbiamo presentato negli scorsi giorni in consiglio comunale una mozione a sostegno della legge di iniziativa popolare presentata alla Regione Toscana per la costituzione di un consorzio industriale sull’area, che apra finalmente le porte a un processo di reindustrializzazione ecologica a beneficio di tutto il territorio.

Questa iniziativa è strettamente connessa all’azione politica che da anni portiamo avanti a livello locale e regionale. Nel 2017, a partire dal lavoro fatto dalla nostra coalizione sui casi della Ericsson e della Carla Colombo, presentammo, infatti, con il gruppo regionale di Sì Toscana sinistra una proposta di legge contro le delocalizzazioni. L’obiettivo era quello di salvaguardare il tessuto produttivo, agendo sul potenziamento dell’azione pubblica rispetto alle grandi imprese. Infatti, soprattutto le multinazionali, godono spesso di contributi e finanziamenti pubblici, diretti e indiretti, regionali, statali ed europei, salvo poi delocalizzare non appena si presenta l’occasione di maggiori profitti, spostando le produzioni là dove il lavoro costa meno: un atteggiamento predatorio, del tipo “prendi i soldi e scappa” o meglio, come recita il motto del fondo Melrose ex proprietario di GKN, “compra, fai profitto, rivendi”.

Siamo di fronte ad un sistema che si fonda sull’esclusiva riduzione del costo del lavoro e su processi di delocalizzazione, in un quadro di totale assenza di politiche industriali. Assistiamo alla fuga di aziende che non vivono particolari crisi produttive, ma che agiscono secondo strategie speculative e socialmente irresponsabili, col solo obiettivo della massimizzazione dei profitti. É giunto, invece, il momento di dare un segnale preciso contro l’irresponsabilità sociale delle grandi imprese e mettere alcuni paletti chiari in difesa del numero dei posti di lavoro, della loro qualità e del mantenimento in Toscana degli insediamenti produttivi, riservando un’attenzione particolare anche alla questione ambientale, come parametro per creare e tutelare produzioni e lavoro orientate al futuro sul pianeta e alla dignità della vita di chi lavora.

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