Ieri, 14 marzo, il Senato accademico dell’Università di Pisa ha discusso alcune mozioni sui rapporti di collaborazione scientifica tra l’Università, l’industria militare, e istituzioni accademiche e imprese di Israele. Sono stati gli studenti a promuovere una discussione che ha come obiettivi la trasparenza dell’Università e il rispetto di principi etici nella ricerca scientifica, affinché le istituzioni scientifiche non si prestino a contribuire con le proprie conoscenze alle politiche di Stati che commettono crimini di guerra.
Puntualmente, a inquinare la discussione con il ricatto di accusare di antisemitismo chiunque si opponga alla politica di continua oppressione e di annientamento del popolo palestinese attuata dallo Stato di Israele, sono arrivate due lettere della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Noemi Di Segni e del Console israeliano per la Toscana, Emilia Romagna e Lombardia Marco Carrai, che tra l’altro ha anche un ruolo non irrilevante sul territorio in quanto è anche presidente della società Aeroporti Toscana, e che non manca di offendere il Rettore, che ricordiamo essere una carica istituzionale di grande rilievo per la Città e che merita rispetto, insinuando nella sua lettera “che di magnifico ha ben poco”.
Il termine “inquinare” non è usato a caso, perché non è nuovo il tentativo di chiudere la bocca a chiunque provi soltanto a criticare lo Stato di Israele, tacciandolo strumentalmente di antisemitismo. Mentre comprendiamo e facciamo nostra la sensibilità della comunità ebraica verso qualsiasi forma di antisemitismo reale, e cioè qualsiasi forma di avversione e discriminazione verso le persone israelite in quanto tali, pensiamo che sia utile fare chiarezza e smascherare la strumentalizzazione che sta dietro l’equazione “opposizione alle politiche dello Stato di Israele = antisemitismo”, che si basa sul concetto – strumentale – per cui Israele avrebbe come missione la protezione della comunità ebraica nel mondo, e quindi in quanto tale sarebbe legittimato a opprimere e annientare il popolo palestinese se questo viene giustificato come necessario per garantire la sicurezza degli israeliani ebrei, e quindi, per una analogia tutta da dimostrare, la comunità ebraica nel mondo. La necessità di fare chiarezza su questa equazione è stata condivisa anche dalle recenti parole del regista ebreo Jonathan Glazer: ”In questo momento siamo qui come uomini che rifiutano che il loro essere ebrei e l’Olocausto vengano strumentalizzati da un’occupazione che ha portato al conflitto per così tante vittime innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele, che l’attacco in corso su Gaza, tutte le vittime di questa de-umanizzazione”.
Non entriamo nel merito delle regole di partecipazione al Senato Accademico, che, essendo questo un organo di governo interno dell’Università, non possono essere stiracchiate a piacimento da chi non ne fa parte, per cui esprimiamo innanzitutto solidarietà al Rettore contro le accuse di antidemocrazia e di latente antisemitismo nel non aver lasciato la parola a Carrai nella seduta del Senato. Ma soprattutto riteniamo del tutto illegittime le accuse di antisemitismo per aver messo all’ordine del giorno in Senato Accademico una discussione sui rapporti tra Università e istutuzionii israeliane e per aver invitato uno studente palestinese a parlare all’inaugurazione dell’Anno Accademico, a nome di una associazione studentesca di cui fa parte e che ha chiesto legittimamente la parola, concessa sulla base di regole democratiche a garanzia della libertà di espressione, come dichiarato dal Rettore stesso.
Le due lettere accusano l’Università di essersi rimangiata con questo gesto la cerimonia del 2018 in cui sono state chieste le legittime scuse per la firma delle leggi razziali del 1938, proprio secondo questa falsa equazione che, di fatto, nega l’esercizio della libertà di espressione, e per “l’aver preso in considerazione il boicottaggio verso Israele”.
Israele è uno Stato che, se vuole essere accettato nel consesso internazionale, deve rispettare il diritto internazionale, ammettendo anche la legittimità di sanzioni e boicottaggio, che sono strumenti riconosciuti per fare pressione diplomatica nonviolenta verso Stati che non rispettano le convenzioni internazionali sui diritti umani. Allo stesso modo, Israele deve accettare di poter essere liberamente criticato dall’opinione pubblica, e non può pretendere elevarsi al di sopra delle parti. Riteniamo anche che l’Università sia totalmente legittimata a discutere sui rapporti di collaborazione che intraprende con enti esterni per verificare che questi siano in accordo con i principi etici della ricerca scientifica, soprattutto in situazioni come quella che riguarda il conflitto in corso a Gaza, dove Israele è sotto accusa presso la Corte di Giustizia Internazionale per violazione della Convenzione sulla Prevenzione e Punizione del Genocidio del 1948, convenzione che ovviamente vede Israele, e anche l’Italia, tra i firmatari e per la quale l’Italia stessa deve assicurare di compiere tutte le azioni in suo potere, anche preventive, per impedire atti di genocidio.
Confutiamo poi le falsità strumentali di Di Segni e di Carrai secondo cui il discorso dello studente palestinese siano “prevaricazioni e minacce alla sicurezza altrui”, che abbia “eretto la condizione delle donne a Gaza a modello” quando invece ha denunciato le condizioni di estrema sofferenza e difficoltà, soprattutto sanitaria, in cui si trovano le donne palestinesi nell’assedio a Gaza. Il discorso dello studente è stato integralmente pubblicato dall’associazione studentesca “Rompere l’assedio” di cui fa parte, ed è facile constatare l’infondatezza delle accuse all’Università. In una situazione che è sotto l’occhio di tutti, in cui più di due milioni di persone sono sotto assedio da mesi a Gaza, in cui sono stati tagliati viveri, medicinali, acqua potabile, in cui sono state distrutte il 70% delle infrastrutture comprese scuole, moschee, ospedali, uccisi 30.000 civili dei quali più di 10.000 bambini, feriti altrettanti, tanto da dover coniare l’acronimo “bambino ferito con nessun familiare sopravvissuto”, come si fa a derubricare la denuncia di questi crimini di guerra, perché tali sono secondo il diritto internazionale, come “prevaricazione e minacce alla sicurezza altrui” o accusare di aver ospitato “oratori odiatori”?
Auspicheremmo invece che proprio la comunità ebraica, in quanto testimone dell’odio razziale, della pulizia etnica e del genocidio che ha storicamente subito, fosse attenta osservatrice di tutte le situazioni in cui si presenta il rischio che questo grave crimine si ripresenti, creando ponti di fratellanza tra popoli, culture e religioni che subiscono oppressione, e che in questo senso, in nome di un uso non sterile e fine a se stesso della conservazione della memoria della Shoah, fosse la prima a denunciare le azioni e le politiche di Israele quando questo calpesta il diritto all’esistenza del popolo palestinese, proprio perché i crimini contri i popoli in quanto tali non si ripetano mai più nella storia.
Sposiamo invece le parole di Franco Lattes Fortini, che nella sua “Lettera alla Comunità Ebraica” del 1989, purtroppo più che mai attuale, invitava la comunità della Diaspora a distinguere tra ebraismo e politica dello stato di Israele proprio per non rimanere (parole di Fortini) vittima dell’equazione “ebrei della Diaspora = agenti dello stato di Israele”, nella convinzione che questa equazione potesse essere foriera di un nuovo antisemitismo, e a farsi invece portatrice di pace “trovando il coraggio di rifiutare complicità con chi quotidianamente bagna la terra con il sangue del popolo palestinese”; Fortini invita infatti la comunità ebraica a prendere parola contro la violenza dello stato di Israele, nella convinzione che solo una de-escalation della violenza possa portare non solo la legittima giustizia verso un popolo oppresso da troppo tempo, ma anche una vera sicurezza ai cittadini di Israele e agli ebrei del mondo, affermando che “ogni cartuccia tolta dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli dei palestinesi”.
Una città in comune