Fascismo, fascismi

Si sbaglia chi crede che il fascismo oggi sia rappresentato dalla teppaglia raccolta attorno a Casa Pound o dai vari gruppi di minus habens pronti a dar di mani contro le minoranze e i deboli. O almeno non sono solo loro. Il fenomeno è infatti molto più largo e complesso, investe ampi strati dello stato e della società, e non bastano certo le analisi sociologiche e antropologiche da sole a spiegare un fenomeno così trasversale e diffuso che ha accompagnato la storia e l’evoluzione delle società capitalistiche (compreso il Giappone e la Cina) dalla fine della Prima Guerra mondiale. Non dimentichiamo che nel 1942 l’Europa occidentale, con l’eccezione della Gran Bretagna, era pressochè completamente fascista; che quel fascismo nasceva dall’interno dei paesi poi conquistati dal nazismo – come spiegare del resto la facile resa dei paesi in questione? Si pensi al solo caso francese per esempio; e che sempre in quell’anno nessuno avrebbe scommesso una sola lira sulla vittoria dell’antifascismo in Italia, in Europa e in Asia. Anche il più ottimista nel 1942 – anno di svolta nelle sorti della guerra – avrebbe pensato che l’Europa nera sarebbe stata la nuova Europa per i tempi a venire.

Quello del fascismo non è affatto un fenomeno legato a una congiuntura economica (ma su questo ritornerò a breve) quanto qualcosa di più profondo sul piano culturale, politico e storico. Non meravigliano in fin dei conti le affermazioni di un Violante che nel 1996 da la stura a una ampia polemica revisionista chiedendo di capire le ragioni della repubblica di Salò; sorprende di più il fatto che manca ancora una spiegazione politica e storica insieme (e non antropologica o anche sociologica) del perchè un presidente della camera di orientamenti democratici si sia prestato a quel gioco; del perchè cioè abbia deciso ad un certo punto della sua carriera politica di mercanteggiare e giocare a scacchi con i principi fondanti dell’antifascismo, della Costituzione e della Repubblica. E’ tentando di dare una risposta a queste domande che possiamo riscoprire e attualizzare il significato della Liberazione oltre che comprendere la natura del fascismo.

L’ossessione dei vecchi leader socialcomunisti per il ritorno del fascismo era percepibile quasi come ingenua. Il richiamo ai rischi di un fascismo di ritorno veniva ancora lanciato quando c’era la Unione Sovietica e tre quarti dell’umanità era socialista; insomma quando il fascismo europeo sembrava un ricordo e il socialismo godeva di buona salute. Con il senno del poi, vien fatto di pensare che erano fin troppo coscienti del fatto che il mostro era solo sopito e non certo sconfitto. Intellettuali ed osservatori di diversi orientamenti si peritarono fin dal suo emergere a offrire delle interpretazioni sul fascismo. Con l’eccezione di Croce che parlò di malattia morale e di parentesi storica, la maggior parte di costoro vedeva nel fascismo un fenomeno connaturato alle modalità con cui il Risorgimento portò alla creazione dello stato unitario – stato con una ristretta base e incapace di allargare il suo consenso – o, nel caso dei comunisti, come fenomeno internazionale e soprattutto come l’espressione di un capitalismo decadente dominato dalle grandi imprese. Tranne Croce, insomma, tutti credevano che il fascismo sarebbe potuto tornare. A riprova di quanto detto basta dare una lettura anche distratta della Costituzione italiana per accorgersi che essa nello spirito e nella lettera fa propria quella conclusione, mettendo in piedi un meccanismo tanto lineare quanto solido per bloccare il ritorno di ipotesi fasciste. (E’ in fin dei conti grazie alla sua solidità se le forze reazionarie che si sono succedute al governo del paese dal 1994 in poi non sono riuscite a mettere in piedi un regime sguaiatamente e apertamente fascista come quelli ucraino, croato o anche ungherese). Ma quella comunista, come ammetteva anche Guido Quazza, restava operativamente la più valida e la più lungimirante, e questo non solo perchè seppe cogliere più delle altre la natura internazionale del fascismo. Un capitalismo incapace di crescere e di offrire il pieno impiego; un capitalismo dominato dalla grande impresa monopolista, sia essa bancaria o industriale (ora spesso scambiato con ‘liberismo’, ahinoi); un capitalismo che come intuirono Orwell e Pasolini, in tempi e in latitudini diverse, riesce a creare un vasto e diffuso consenso ideologico attraverso il consumismo di massa – il capitalismo contemporaneo in sintesi resta il terreno fertile per le grandi fughe di massa dalla libertà. Pensare che questo avvenga o possa avvenire con i manganelli, con i fetz e con gli stivaloni, come nella satira di Guzzanti, è semplicemente ridicolo, come lo è del resto l’ipotesi del monopartitismo come ai tempi del ventennio. Del resto, manca anche il movente per il ricorso al manganello, e cioè la mobilitazione e lo scontro sociale. A tal proposito andrebbe detto che lo storico liberale Gentile ha dimostrato che i gerarchi fascisti all’indomani dell’arresto di Mussolini nel luglio 1943 concepirono un piano per la creazione di un regime bipartitico con sistema elettorale maggioritario, sul modello inglese o se si vuole simile a quello messo in piedi da Berlusconi e dal PDS/Margherita dopo il 1994. Ma poi venne la resistenza e la Costituzione, due avvenimenti tutt’altro che scontati dopo la caduta di Mussolini, che spazzarono via quei progetti. La cosa deve far riflettere non solo perchè getta luce sul carattere eversivo che le leggi elettorali hanno assunto dagli anni venti in poi nel nostro paese, quanto sul fatto che, tolti i fetz e gli stivaloni ora sostituiti forse dai jeans sotto le giacchette classiche, a ben vedere esiste una sottile linea rossa che collega i vari tentativi reazionari nella storia d’Italia che hanno tutte le stesse finalità di stabilità e regressione sociale. Famosa è rimasta l’affermazione di Giorgio Galli secondo cui il regime del dopoguerra è stata una forma di bipartitismo imperfetto, perchè da un lato vi erano i socialcomunisti e dall’altro i democristiani con i loro partitini satelliti. Usando e capovolgendo proprio quella categoria, potremmo forse sostenere che oggi ha preso corpo un monopartitismo imperfetto nel nostro sistema istituzionale; un regime in cui vi sono formalmente forze politiche diverse che tuttavia condividono gli stessi principi e le stesse finalità regressive ed eversive. Fu un fatto notato dallo stesso Ingrao nel 1964 che per spiegare l’enfasi sulla governabilità (la ricordate?) parlò di degerazione delle correnti politiche democratiche europee e della crisi degli istituti rappresentativi; o anche da Bertinotti e Gianni che invece parlarono più di recente delle ‘due destre’. Ma quello di destra, come anche di sinistra, è forse un concetto metastorico, al contrario del fascismo che è stato un grande movimento di massa di cui le due destre, quella formalmente al governo e quella all’opposizione, rappresentano l’ultima evoluzione storica. Individuare gli elementi di continuità nella discontinuità e di discontinuità nella continuità, per dirla con Gramsci, è un compito che dobbiamo porci. Ogni commemorazione della Liberazione non può farci distogliere lo sguardo dal fascismo di ritorno che abbiamo di fronte in Italia e in Europa che non trova somiglianza apparente in quello storico che ben conosciamo. A noi tocca evitare che si realizzi una ipotesi crociana capovolta, cioè che la stagione democratica del secondo dopoguerra finisca per essere non la norma ma una parentesi storica irripetibile tra due fascismi. E per farlo dobbiamo, appunto, dotarci degli strumenti materiali e intellettuali per rilanciare la lotta a tutti i livelli nella società italiana ed europea.

 

Valerio Cerretano, docente storia economica Università di Glasgow

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