Anche a Pisa i movimenti di solidarietà per la Palestina chiamano l’Intifada studentesca e lanciano l’acampada con le tende per questo lunedì 13 maggio. La nostra città continua a fare la sua parte all’interno di una mobilitazione che, in tutto il mondo, appare ormai incontenibile. Nelle ultime settimane, le proteste nelle università europee (fra le molte, l’occupazione di Sciences Po a Parigi) e statunitensi (a partire dalla Columbia University di New York) hanno restituito le immagini di due realtà. Da una parte, vi è un mondo della formazione e una società civile che, anche nell’Occidente i cui governi sostengono le politiche genocidiarie di Israele, non può tacere, e che chiede a gran voce un immediato cessate il fuoco, la fine del genocidio e dell’occupazione della Palestina; dall’altra, l’escalation di una repressione sempre più violenta ed esplicita, con migliaia di studentǝ e professorǝ malmenatǝ, ammanettatǝ e arrestatǝ, e con la politica che demanda alla polizia il tentativo di imporre il ritorno dell’ordine e del silenzio. La repressione è la cartina di tornasole della complicità e della miopia dei governi occidentali, che sono, assieme a Israele, sempre più isolati sul piano internazionale: è di sabato 10 maggio infatti la risoluzione dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite di accogliere lo Stato di Palestina come membro a pieno titolo, e non solo osservatore, con il voto favorevole di 143 paesi, il voto contrario, oltre che di Israele, degli Stati Uniti, e con l’astensione di alcuni paesi occidentali, tra cui l’Italia.
Nel nostro Paese, proteste e occupazioni nelle varie università restituiscono un fermento altrettanto forte e attivo. Di fronte a questa marea montante, la violenza della repressione e la sordità politica e istituzionale sono particolarmente colpevoli. Fra l’altro, nonostante le enormi mobilitazioni che hanno attraversato gli atenei (si pensi alla Sapienza di Roma occupata) e le prese di distanza di alcuni senati accademici (ad esempio all’Università di Torino, di Bari e alla Normale di Pisa), il governo Meloni non ha ritirato lo scandaloso bando di cooperazione industriale tra il nostro ministero e quello israeliano. Un bando, vale la pena ricordarlo, uscito a novembre scorso, quando il massacro della popolazione palestinese era già in atto, e le cui aree di interesse riguardano le tecnologie del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione: fronti chiave, come denunciano da anni l’ONU e le organizzazioni umanitarie, nell’impalcatura scientifico-tecnologica dell’occupazione territoriale e del controllo della popolazione palestinese da parte di Israele.
L’assenza di qualsivoglia possibilità di supervisione sull’uso etico di queste tecnologie ha inoltre riportato all’attenzione mediatica un problema ben più ampio. Il bando del MAECI è infatti solo la punta dell’iceberg: le proteste che stanno scuotendo le nostre università interrogano i luoghi del sapere sugli esiti dual use (civile e militare) della ricerca che in essi si produce, e dichiarano di non voler più collaborare con la filiera bellica e con l’industria di morte, tanto in Palestina che in tutto il mondo. Si chiedono clausole etiche stringenti e si contestano i rapporti con il mondo militare e con l’ingegneria di guerra: ad esempio, le collaborazioni dirette e i rapporti economici che la maggior parte delle università italiane intrattengono con aziende quali Leonardo SpA, tra le più grandi fornitrici di armi nei teatri bellici odierni. Ma si denuncia anche il ritardo con cui le istituzioni scientifiche si interrogano sul loro coinvolgimento nell’economia di guerra, e la cieca complicità con istituzioni compromesse in scenari di guerra e di violazione del diritto internazionale, non ultime le molte università israeliane da anni attivamente responsabili nel fornire sostegno, anche giuridico e ideologico, all’annichilimento del popolo palestinese.
La richiesta, insomma, è che il mondo della ricerca cominci finalmente a interrogarsi sugli sviluppi e gli esiti dei saperi che produce, affinché essi costruiscano una cultura di pace e non di guerra.
Il nostro territorio ha un ruolo significativo nella corsa agli armamenti e nella militarizzazione in corso: Pisa è la città di Camp Darby e dei progetti per la base militare all’ex cisam; è la città della Scuola Superiore Sant’Anna, attivissima sul fronte delle collaborazioni con l’industria bellica e colpevolmente silenziosa, negli scorsi mesi, riguardo al genocidio palestinese. Anche la nostra Università, in un senato accademico dedicato, ha rifiutato di esporsi sulla problematicità del bando e dei rapporti di collaborazione di cui sopra. L’organo di governo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che vede a Pisa l’Area della Ricerca più grande d’Italia, ha deliberato di “non aderire ad alcuna forma di boicottaggio” scientifico, nonostante le richieste dei ricercatori e nonostante abbia invece immediatamente sospeso i progetti di collaborazione scientifica con la Russia nel 2022. Ma Pisa è anche il territorio che ha saputo dare risposte di cittadinanza e pacifismo attivo, tanto con i fondamentali risultati del Movimento NoBase quanto con la solidarietà di una comunità stretta in difesa delle studentesse e degli studenti manganellati il 23 febbraio (e proprio perché manifestavano in difesa della Palestina: il trasferimento del questore Salvo non basta a far dimenticare la vergogna di quella mattanza). L’acampada di lunedì sarà un altro passaggio fondamentale per una comunità partecipe al coro, forte e chiaro, che arriva da tutto il mondo: stop al genocidio e all’escalation bellica, stop al silenzio e alla complicità delle nostre istituzioni