La sfida di Najwa far riscrivere il bando riservato agli italiani

domenica
27 maggio 2018
Testata:
REPUBBLICA
Pagina:
18

GERARDO ADINOLFI

FIRENZE

Per i ministeri della Giustizia e dell’Interno il mediatore culturale deve «essere preferibilmente di origine straniera». Ma il bando dello stesso dicastero della Giustizia, per 15 posti da funzionario mediatore culturale nelle carceri, prevede la cittadinanza italiana. Condizione che ha escluso gli stranieri comunitari ed extracomunitari dalla partecipazione.

Un parametro quasi «comico», oltre che «discriminatorio» per il Centro di documentazione “L’Altro diritto”. L’associazione ha presentato ricorso al Tribunale di Firenze per chiedere l’ammissione al bando di Najwa Hemri, 37 anni, mediatrice culturale marocchina e in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo Ue. Najwa vive in Italia da 15 anni, si è laureata all’Università di Firenze e ha frequentato un master in Criminologia sociale all’Università di Pisa. Lavora da tempo come mediatrice culturale per il carcere fiorentino di Sollicciano. Ha tutti i requisiti, non la cittadinanza italiana. Perciò non ha potuto neanche compilare il form online. Ma ha deciso di non arrendersi: «Ho tutto in regola nel curriculum – ha detto – è assurdo».

La domanda allora l’ha inviata cartacea invece che digitale, e l’associazione del professor Emilio Santoro ha spedito al ministero una diffida. Nessuna risposta. Così le legali Alida Surace e Silvia Ventura hanno presentato il ricorso per chiedere «di cancellare la discriminazione e riaprire il bando». «Il requisito di ammissione della nazionalità italiana è illegittimo – spiegano in quanto costituisce una discriminazione diretta c/o indiretta per nazionalità, sia individuale che collettiva, vietata dal diritto dell’Unione Europea e dal diritto interno». Per l’associazione la cittadinanza è anche un paradosso perché in un dossier del ministero dell’Interno e della Giustizia è scritto che tra le condizioni di accesso ritenute indispensabili per i mediatori c’è «l’essere preferibilmente di origine straniera, nonché l’essere stati residenti in Italia per un periodo di tempo sufficiente all’acquisizione di una conoscenza generale dello stile di vita della cittadinanza italiana». Per le legali, il Ministero della Giustizia avrebbe scritto il bando seguendo una norma del 1994 ormai obsoleta che prevede che tutti i dipendenti del dicastero siano italiani. Successivamente il Trattato di funzionamento dell’Unione Europea ha riservato in esclusiva ai cittadini degli stati membri solo gli impieghi nella Pubblica amministrazione vietando, per gli altri tipi di lavoro, ogni discriminazione di nazionalità. La Corte di Giustizia europea, sentenza dopo sentenza, ha ridotto ancora di più i divieti. Chi non ha la cittadinanza può essere escluso
solo da impieghi che prevedono funzioni di «esercizio diretto di pubblici poteri» e di «tutela dell’interesse nazionale». In Italia il Testo unico sul pubblico impiego è stato modificato nel 2013 per obbedire a questi obblighi europei.

E il ruolo di mediatore culturale, diverso dall’interprete o dal traduttore, per le avvocate è «un’attività coordinata e diretta da funzionalità superiori, relative a campi che nulla hanno a che vedere con l’esercizio di funzioni coercitive e di imperio». Nessun ruolo di pubblico potere, dunque. Pertanto la cittadinanza è una discriminazione. Toccherà al giudice decidere. Già nel 2017 L’altro diritto aveva presentato ricorso contro il bando del ministero per 800 posti di assistente giudiziario chiedendo l’ammissione di una giurista albanese. La causa è in corso.

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