Nei giorni scorsi è uscito il Dossier Statistico Immigrazione, curato a livello nazionale dall’Istituto di Ricerche Idos e presentato a Pisa dalla Caritas locale. I dati relativi alla Toscana e alla nostra provincia, divulgati nei giorni scorsi, riservano numerose sorprese, e infatti hanno suscitato un ampio dibattito in città.
In primo luogo la Toscana, che per decenni è stata terra di destinazione di consistenti flussi migratori, sembra avere oggi una minore capacità attrattiva: il numero di stranieri residenti è quasi ovunque in calo, e anche nelle poche province in cui si registra un segno positivo gli aumenti sono molto contenuti: a Pisa, ad esempio, nel 2021 gli stranieri sono stati appena lo 0,9% in più rispetto al 2020 (a titolo di confronto, quindici anni fa la popolazione immigrata cresceva al ritmo del +10/+12% l’anno). Sono numeri che dimostrano, dice testualmente il Dossier, «che l’idea della Toscana Felix, terra capace di accogliere, è ormai tramontata da tempo».
I dati più allarmanti riguardano però la condizione sociale dei cittadini stranieri e delle loro famiglie. Tra i lavoratori il tasso di disoccupazione è più che doppio rispetto agli italiani, le forme di precarietà lavorativa sono assai diffuse, e la manodopera immigrata si concentra nei posti di lavoro meno protetti e più esposti allo sfruttamento: il Dossier parla esplicitamente di «segregazione occupazionale», cioè – potremmo dire – di una sorta di “apartheid soft”, in cui gli stranieri sono relegati alle mansioni più umili e meno qualificate. Questi dati, peraltro, sono confermati anche dalla Caritas diocesana di Pisa, che ha segnalato un rilevante incremento delle richieste di aiuto da parte di famiglie straniere.
Sarebbe facile concluderne che siamo in un periodo di crisi, che «non possiamo più accogliere nessuno», e che inevitabilmente coloro che emigrano oggi nei nostri territori sono destinati a vivere in condizioni di marginalità. Ma anche su questo i dati forniti dal Dossier smentiscono le facili asserzioni di senso comune: i «nuovi arrivati», i migranti che ospitiamo nei centri di accoglienza, sono un’esigua minoranza della popolazione immigrata. Nella maggior parte dei casi a perdere il lavoro, o a trovarsi in condizioni di difficoltà economica, sono gli stranieri che vivono in Italia da anni, o anche da decenni: persone che hanno permessi di soggiorno stabili e a tempo indeterminato, o che addirittura hanno acquisito la cittadinanza italiana proprio per la loro continuità di residenza in Italia. Il punto, dunque, non è che «non ci sono risorse per accogliere»: il punto è che una parte sempre più consistente della popolazione scivola nella povertà, e che questo fenomeno riguarda anche i lavoratori stranieri.
Sono dati che dovrebbero farci riflettere: non solo per la gravità della crisi che stiamo attraversando, ma anche per l’assoluta mancanza di risposte che le istituzioni nazionali e locali hanno saputo dare finora. Ci sarebbe bisogno oggi più che mai di un welfare inclusivo: di alloggi popolari, di interventi per l’edilizia sociale, di un sistema sanitario efficiente e gratuito, di servizi scolastici accessibili, di sostegni al reddito. Ce ne sarebbe bisogno per tutte e tutti: per i lavoratori italiani, per gli stranieri residenti da lungo tempo, per i migranti appena arrivati o per coloro che hanno acquisito o stanno acquisendo la cittadinanza. Lo slogan «prima gli italiani», anche nel nostro territorio, ha occultato una politica di progressivo smantellamento dello stato sociale, e oggi a pagarne le conseguenze sono i settori più fragili della società.
Una Città in comune