Domani martedì 6 giugno si svolgerà lo sciopero nazionale del settore delle Telecomunicazioni proclamato dai sindacati confederali, con manifestazione a Roma.
La crisi del settore a livello europeo, con consistenti tagli al personale (anche in Italia) è sotto gli occhi di tutti: prima l’annuncio di Vodafone, poi di British Telecom, WindTre, Ericsson.
Ma la crisi delle telecomunicazioni non si affaccia solo ora. A Pisa purtroppo lo sappiamo bene: la vertenza Ericsson nel 2017 e ora l’ultima vertenza Vodafone, riapertasi dopo la conclusione nel 2019 con il ricorso ad ammortizzatori sociali, esodi incentivati, e piano di overskilling finanziato con soldi pubblici.
Le multinazionali si trovano ad affrontare un insieme di concause che ne riducono i profitti e così tagliano, come sempre, sul costo del lavoro: la presenza sul mercato di numerosi soggetti, l’avvento dell’intelligenza artificiale, i call center esteri a costi inferiori, la concorrenza sulle commesse ad alto valore aggiunto nel settore privato o della pubblica amministrazione…
Ma in Italia la questione assume una rilevanza molto più preoccupante: mentre negli altri paesi europei la manutenzione e la gestione delle infrastrutture sono in mano pubblica essendo le società statali azioniste di maggioranza dei soggetti di riferimento, i governi italiani che si sono succeduti hanno provveduto nel tempo a vendere quasi integralmente l’infrastruttura strategica, con il colosso francese Vivendi attualmente azionista di maggioranza di Tim, e con Cassa depositi e prestiti che ha quindi poca voce in capitolo.
In questa situazione di completa deregolamentazione, le principali compagnie presenti nel nostro Paese prevedono allora di risolvere la crisi scorporando dai servizi l’industria, ovvero la proprietà e la gestione delle infrastrutture di rete.
WindTre ha già ceduto a un fondo d’investimento svedese parte della sua rete mobile; Tim è in fase di valutazione delle offerte per la dismissione della sua NetCo.
Sono quindi a rischio in Italia circa 20.000 posti di lavoro diretti, senza contare l’intero sistema degli appalti del settore, relativamente all’impiantistica, la manutenzione, l’installazione delle reti fisse e mobili, oltre che per il settore dell’assistenza clienti.
Nel paese che si trova agli ultimi posti in Europa in termini di qualità della connessione e in cui la copertura di rete a banda larga nell’intero territorio nazionale è lungi dall’essere completata a fronte della mole di investimenti stanziati, occorre allora una immediata e netta inversione della politica industriale ed economica: il mercato e la deregolamentazione non migliorano i servizi e non fanno l’interesse dei cittadini e dei lavoratori; occorre che lo Stato riprenda le redini di un settore di grande rilevanza strategica, difendendo i posti di lavoro e pretendendo ai tavoli di trattativa seri piani industriali ad alto valore aggiunto.
Sosteniamo quindi con grande convinzione lo sciopero di martedì e siamo a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori delle telecomunicazioni, preoccupati del futuro loro e del nostro Paese.
Una città in comune