Antonio Maria Baggio “Il pacifismo si vede meno si è rimboccato le maniche ed è ancora più efficace”

giovedì
26 aprile 2018
Testata:
REPUBBLICA FIRENZE
Pagina:
III

L’intervista

Il mondo sembra a un passo dalla guerra globale, mai pacifisti non ci sono. A parte qualche rara e poco partecipata manifestazione (l’ultima, pochi giorni fa, a Firenze), il movimento che nel 2003, contro la guerra in Iraq, portò in piazza a Roma 3 milioni di persone con le bandiere iridate, sembra sparito. C’è da preoccuparsi? O la lotta per la pace, semplicemente, ha cambiato volto? «Si vede meno in piazza, ma non per questo ha perso di efficacia, tutt’altro, oggi lavora per costruire una pace vera e meno ideologica», dice Antonio Maria Baggio, ordinario di Filosofia politica all’Istituto universitario Sofia di Loppiano.

Professore, che cosa è successo al pacifismo “di massa” così come l’abbiamo conosciuto in passato ?

«Si è trasformato. La mobilitazione è meno appariscente perché si è data un volto nuovo, che non esclude la piazza ma si concentra soprattutto sulla costruzione di condizioni concrete per la pace. Questo richiede di lavorare giorno per giorno, più che con le manifestazioni, che pure è bene ci siano. C’è stata una maturazione, una positiva evoluzione in senso più pragmatico».

Può fare qualche esempio?

«I grandi successi del volontario nei processi di cooperazione internazionale, che è evidentemente una forma di costruzione della pace dal basso. Per esempio, col sostegno alle popolazioni nell’avvio di piccole attività economiche, capaci, mantenendo la loro identità locale, di collaborare anche con aziende occidentali. Successi superiori a quelli ottenuti dal FMI o dalla Banca Mondiale, con interventi segnati dalla monocultura occidentale, che non rispondono alle vere necessità reali delle popolazioni, e introducono forme di subordinazione. Un tempo militari e politiche, oggi soprattutto economiche».

Un pacifista, insomma, oggi, deve innanzitutto rimboccarsi le maniche.

«Sì, e anche se questo significa scontrarsi con i fortissimi interessi economici multinazionali che vorrebbero governare in esclusiva tutti i piani di sviluppo. E con gli stessi Stati, che magari condannano la guerra a parole, ma poi sostengono le industrie che vendono armi, vedi, in Italia, la produzione di mine antiuomo, o le bombe di Iglesias destinate allo Yemen. Le popolazioni che pure vivevano di quella attività, sono scese in piazza e chiesto al governo un progetto per mantenere l’occupazione senza fabbricare armi».

Il nuovo pacifismo, sembra di capire, deve anche saper dialogare con le istituzioni. «Deve articolarsi a più livelli, e costringere le istituzioni, cioè la politica, a darsi una visione strategica su questi temi, in raccordo con altri paesi, quantomeno a livello europeo. In Belgio alcune industrie producono solventi utilizzabili sia per le vernici che per le armi chimiche: che fare? Gli Stati devono impostare un’idea pacifista di sviluppo economico, e il movimento pacifista può contribuire a questa evoluzione politica».

Ma a questo scopo serve anche “premere” attraverso la piazza, no?

«Certo, ma andare in piazza solo per marcare una presenza, rischia solo di farsi `incamerare’ da questa o quella forza politica. Alle spalle, bisogna avere su un lavoro

quotidiano come quello di cui, in Italia, è capace l’associazionismo. Se alla gente spieghi che la guerra fa guadagnare le multinazionali mentre rovinate e me, che alla pace sono collegate una buona sanità, una buona istruzione, un futuro pertutti, poi va volentieri anche in piazza, perché sa che non manifesta per qualcosa di generico, ma per costringere lo Stato a nuove politiche economiche, e l’Europa a un progetto integrato di conversione dei vari settori, per consolidare la pace in modo strutturale».

Il nuovo pacifismo, cioè, non è compito solo dei pacifisti.

«E deve coinvolgere la vita quotidiana, gli stili di vita, il linguaggio pubblico. Costruire un’idea di città sulla paura di un nemico, l’immigrato, considerare il porto d’armi la prima preoccupazione, significa introdurre nel nostro quotidiano un pensiero di guerra, non di pace, che perde di vista l’insieme, non si accorge che l’immigrazione non è un fenomeno a sé, ma legato ai conflitti della “terza guerra mondiale a pezzi”. Senza contare che il tono stesso del linguaggio politico, oggi, incoraggia la guerra, vedendo nei competitors “nemici” da eliminare, anziché avversari con cui confrontarsi». – m.c.c.

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