Il nuovo proletariato sfila tra dubbi e sospetti

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Il nuovo proletariato sfila tra dubbi e sospetti

di ANTONIO VALENTINI

Gli autoparlanti sparano watt: «Che roba contessa, all’industria di Aldo,
han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti. Volevano avere i salari aumentati, gridavano pensi, di esser sfruttati …» Alla fine della strofetta qualcuno, che attraversò i Settanta da giovane uomo, memore di quel Paolo Pietrangeli che componeva canzoni di lotta, a squarciagola intona il prosieguo: «Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce e portate il martello…». Altri spuntano tra le bandiere rosse della Cgil e quelle celesti della Uil, personificando immagini d’antan: «Vuole una copia di Lotta Comunista?», «L’Internazionale, compri l’Internazionale…». Poi gli striscioni, i selfie, gli slogan contro il Jobs Act, i ritornelli anti-Renzi, i filmati con gli smart-phone… Ricordava un murale messicano, la manifestazione che ha inondato le strade di Pisa, con Pancho Villa che cavalca in mezzo alle Limousine e i conquistadores, impavidi, tra i ricconi di Miami. Un serpentene colorato, un ponte fisico e ideale tra il passato dei ciclostile e un presente avviato all’imminente dissoluzione nel futuro 3.0.
D’altronde questo è, con Susanna Camusso – leader della Cgil – che usa Twitter e l’hashtag #CosiNonVa come segnale d’inizio allo sciopero generale vecchia maniera, simile a quelli che negli anni ’70 si proclamavano contro i governi a trazione Dc, ponendo due nodi politici. Il primo: il sindacato non accetta svilimenti della propria identità rappresentativa per auto-confinarsi nelle contrattazioni aziendali. Il secondo: gli anni della concertazione sono tramontati, travolti dalla crisi e dalle ripercussioni sociali prodotte. E infatti il nocciolo della protesta di ieri sta qui, nell’effetto combinato tra la recessione e la luce in fondo al tunnel che dopo sei anni ancora non si vede, tra le riforme che la sinistra social-liberale produce in un mondo del lavoro divenuto obsoleto e i loro effetti pratici, al momento intangibili, sull’occupazione e la crescita economica.
Parrà un paradosso, ma nell’ epoca in cui il mito di Marx è stato sostituito da quello di Keynes, lo scontro tra il proletariato e il capitale si è acuito. D’accordo, sono definizioni antiquate e scadute, però nel tempo hanno cambiato aspetto e contenuto. Si sono comportate come organismi mutanti. Oggi il proletariato non è più quello che produceva arricchimento attraverso il plusvalore; se in caso è quello dei disoccupati e dei precari, degli emarginati e di quanti non avranno la pensione, delle partite Iva e degli invisibili nascosti nei reticoli delle città. E capitalista non è più chi reinveste una quota del profitto nella fabbrica, ma chi specula sui mercati finanziari, dove il denaro non produce lavoro ma soltanto e ancora denaro.
Tutto ciò mentre l’Europa dimostra uno strabismo che ne concentra l’attenzione più al rigore contabile che alla crescita della domanda, rendendola inflessibile sul Fiscal compact ma distratta sulla ripresa della produzione e, per questo, sul mercato del lavoro.
Il Jobs Act ha i suoi estimatori, che ne apprezzano la valenza riformatrice e innovativa. Tra di essi non figurala Cgil, che grazie alla Uil si è sottratta all’isolamento in cui era stata relegata. Non piace perché insinua dubbi, prefigura propositi che generano sospetti, non foss’altro perché i decreti attuativi faticano ad arrivare: tutele crescenti in che modo? Ammortizzatori sociali coperti come? Demansionamento perché? Se il governo tirerà dritto, Cgil e Uil andranno avanti, convinti che il lavoro mai potrà divenire una variabile deprezzata nell’epoca in cui il potere finanziario detta regole a livello globale. Sarà muro contro muro. A meno che Palazzo Chigi e sindacati ritrovino il filo del dialogo: quel -0,8% produttivo nei primi dieci mesi del 2014 testimonia che il Paese è in ginocchio. Serve uno sforzo straordinario.

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