Il partito, una casa rimasta senza popolo

martedì
26 giugno 2018
Testata:
CORRIERE FIORENTINO
Pagina:
1-3
ì

UN VIAGGIO ALLE ORIGINI

di Franco Camarlinghi

«Ei fu. Siccome immobile, /dato il mortai sospiro, /stette la spoglia immemore/orba di tanto spiro,/così percossa, attonita/la terra al nunzio sta». I versi di Alessandro Manzoni per Napoleone mi sono venuti in mente quando un notiziario notturno ha dato i risultati definitivi dei ballottaggi a Pisa, Massa e Siena.

Si parva licet componere magnis, dopo la definitiva sconfitta del Pd a Siena, la spoglia di quella che fu la Toscana rossa giaceva di fronte ai nostri occhi. Magari la terra non sarà così percossa e attonita, ma la caduta precipitosa di una primazia, durata tanti decenni, non può non suscitare sorpresa e perfino sconcerto.

Che cosa fu la Toscana rossa nel ricordo di chi ha vissuto tanta parte della propria vita in una regione nella quale l’idea di un’alternativa era sembrata quasi impossibile? Conviene andare a ritroso nel tempo, quando in Toscana l’egemonia del Pci aveva la sua massima contraddizione a Firenze che, dopo l’iniziale esperienza di Mario Fabiani, era stabilmente passata a governi guidati dalla Dc. Chi si accostava alla politica e diventava militante o dirigente del partito di Gramsci, Togliatti e via di seguito, viveva, a Firenze, nel riflesso di un predominio che si arrestava alle porte della capitale della regione, ma che ugualmente ne rivelava gli elementi di fondo. Quando nel finire degli anni

sessanta fu inaugurata la nuova sede del Pci in via Alamanni, la sensazione di una forza che in poco tempo sarebbe diventata capace di conquistare Firenze, divenne chiara anche agli occhi degli avversari più accaniti. La macchina organizzativa dei comunisti era impressionante: in via Alamanni c’era un quartier generale con decine di funzionari che si occupavano dall’ago al cannone, in grado di assicurare un contatto permanente con ogni categoria sociale. Ed era solo una struttura centrale, poiché se ci si allontanava dalla città, in ogni comune della provincia tutto ciò si ripeteva e si amplificava, in realtà di governo, di sindaci che rispondevano a tutto e a tutti, con indennità ridicole e senza alcuna assicurazione, ma capaci di percentuali di consenso da Guinness dei primati.

Se poi si percorreva la Toscana nel suo insieme, a parte alcune situazioni, come quella di Lucca, nelle città importanti e in quelle minori si incontravano altrettante fortezze organizzative dei comunisti. Ma la sinistra non era solo fatta dal Pci: i socialisti avevano una presenza radicata e spesso determinante, mentre ogni cosa che apparisse a sinistra acquistava un ruolo più o meno di rilievo.

Non era solo la struttura di un partito a rendere particolare e quasi unico il modello politico della Toscana: fino dall’inizio la preoccupazione della sinistra era stata quella di creare ovunque luoghi di incontro e di aggregazione, le famose case del popolo. Vi si realizzava un incontro fra classi sociali, dirigenti di partito e intellettuali che oggi sembrerebbe incredibile. Non è qui che si intende giudicare le proposte politiche o

le ideologie che attraverso tutto ciò venivano diffuse, di certo si trattava di luoghi di scambio che in un modo o nell’altro consentivano una tenuta e una solidarietà sociali oggi inimmaginabili. Mi viene in mente un ciclo di conferenze su Granisci di Eugenio Garin nella mitica casa del popolo del Madonnone, a Firenze. Una folla di operai e di artigiani, fianco a fianco di giovani e meno giovani professori universitari, che ascoltavano religiosamente l’illustre studioso, mentre spiegava l’opera del fondatore del Pci; tributandogli alla fine applausi entusiastici, come se avessero assistito a un comizio di Terracini o di Togliatti. Già, perché questa era una caratteristica della Toscana rossa, prima che diventasse soprattutto un sistema di potere: la considerazione del ruolo degli intellettuali, della loro funzione, anche quando magari se ne intendevano i ragionamenti per quanto possibile. Non c’era Comune della regione dove questo non succedesse e dove non avesse ragione di essere la famosa battuta di Benigni in Berlinguer ti voglio bene: «E ora compagni, passiamo dal ricreativo al culturale», o viceversa.

Naturalmente il rapporto diretto con gli elettori passava in maniera determinante attraverso la vita delle sezioni (ce n’era una ogni frazione di quartiere o di paese) e l’infinita serie di comizi che non conoscevano soste. Si andava da quelli importanti, a cui partecipavano i leader nazionali, a quelli nei posti più sperduti dove capitava spesso di parlare a spettatori che si affacciavano alle finestre di casa. Sempre andando sul filo me

moria, viene il ricordo di Berlinguer in piazza della Signoria nella metà degli anni Settanta, in vista del voto che avrebbe portato il Pci alla conquista delle città più importanti e fra queste Firenze. Si trattava di un vero e proprio rito, di fronte a folle che erano assolutamente d’accordo su tutto, dove si decideva la stessa gerarchia dei dirigenti locali: chi era sul palco più o meno vicino al segretario e chi non c’era. Si può guardare con ironia o con spirito critico a quel tempo, ma di certo c’era una compattezza sociale che pur fra tante contraddizioni e idee sbagliate, lasciava pochi varchi al populismo oggi imperante. Era comunque una Toscana che in gran parte si identificava con la sinistra e con una sua parte, che aveva bisogno certo di riti già allora anacronistici, ma che in fondo manteneva un’ambizione largamente diffusa ad una solidarietà e ad una partecipazione consapevoli.

Poi, anche in seguito all’avvento della Regione, tutto iniziò a spostarsi in una direzione di gestione del potere, nel convincimento che la continuità di questo non fosse contendibile. Tornado al Manzoni e guardando al passato, con spirito «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio», possiamo dire che la vecchia Toscana rossa, in fondo un po’ romantica, fatta di organizzazione e di volontariato politico, si è trasformata via via in un fortino di interessi e di istituzioni sempre più assediati, le cui mura hanno cominciato a crollare, come ha dimostrato il voto di domenica.

Franco Camarlinghi

Condividi questo articolo

Lascia un commento