Le morti nel Mediterraneo non sono il frutto di una tragica fatalità, ma l’esito ultimo di scelte politiche ben precise

Aveva appena sei mesi il piccolo Joseph, morto tra le braccia dei medici di Emergency e della Ong Open Arms, dopo essere stato tratto in salvo da un gommone andato a fondo a 30 miglia dalle coste libiche. L’imbarcazione era stata soccorsa dalla Ong spagnola, ma le condizioni del piccolo erano apparse estremamente critiche, e i medici avevano sollecitato un’evacuazione d’urgenza per portarlo in Ospedale. Purtroppo i soccorsi non sono arrivati in tempo, e Joseph è morto. Sono sei in tutto le vittime accertate del naufragio (Repubblica, 11/11/2020).

Questa tragedia non è l’unica in quel tratto di Mediterraneo: nel solo periodo Gennaio-Novembre 2020, secondo alcune stime, sono stati 825 i migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa (Avvenire, 14/11/2020). Nel periodo 2013-2019 i morti sono stati oltre 19mila (ISMU, 2/10/2019).

Sono numeri che non ci parlano di una tragica fatalità, ma di una vera e propria strage: strage che chiama in causa le politiche dei governi italiani ed europei.

Bisogna ricordare in primo luogo che in quella notte dell’11 Novembre la Open Arms era l’unica nave adibita al soccorso presente nel Mediterraneo occidentale. Tutte le altre navi delle Ong erano bloccate nei porti, sottoposte a fermo amministrativo. Come ha ricordato in questi giorni il professor Fulvio Vassallo Paleologo, infatti, le Guardie Costiere hanno disposto il fermo amministrativo di quasi tutte le imbarcazioni da soccorso, sulla base di criteri che per gran parte dei giuristi e degli esperti sono del tutto arbitrari: le navi Ong vengono parificate a quelle che effettuano il trasporto passeggeri, oppure viene creata una categoria insesistente nel diritto italiano, quella delle “navi da soccorso”. Sulla base di queste discutibili interpretazioni, quasi tutte le navi delle Ong sono state ritenute inidonee e sono state bloccate: oggi nel Mediterraneo non vi sono più mezzi adibiti al soccorso dei naufraghi (vedi Fulvio Vassallo Paleologo su Adif  e Andrea Maggiolo su Today).

Si tratta dell’ultimo atto di una lunga guerra alle Ong e al soccorso in mare: una guerra che ha avuto il suo culmine con il Ministro Salvini, ma che non si è purtroppo conclusa con l’arrivo di governi di diverso orientamento politico.

Ma c’è di più. Tutta questa situazione è dovuta anche – e forse soprattutto – agli scellerati accordi con la Libia, che hanno delegato le operazioni di salvataggio a un paese dove non vige uno Stato di diritto, e a una sedicente “Guardia Costiera Libica” collusa con trafficanti e mafiosi (vedi: inchiesta de L’Espresso Febbraio 2019; e anche inchiesta di Nello Scavo su Avvenire Giugno 2020; anche inchiesta The Vision Luglio 2020).

I governi italiani hanno scelto di ignorare la lettera con cui la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, chiedeva all’Italia di non rinnovare gli accordi con la Libia, per le gravi violazioni compiute da quel paese nei confronti dei naufraghi e dei migranti (vedi testo della lettera e articolo su Avvenire 22/02/2020). E non hanno voluto tener conto neppure della sentenza della Corte d’Assise di Milano, che ha accertato l’esistenza, in Libia, di veri e propri lager per migranti, dove vengono normalmente praticate torture e violenze (vedi comunicato Asgi con allegato testo della sentenza).

Il risultato è che, nella cosiddetta “area Sar libica” – cioè nel tratto di mare in cui le operazioni di salvataggio dovrebbero essere di competenza del governo di Tripoli – i migranti vengono sostanzialmente abbandonati a loro stessi, oppure vengono riportati in Libia, dove subiscono detenzioni illegittime, violenze e torture. Se a ciò si aggiungono l’assenza quasi completa di missioni istituzionali di salvataggio e la scomparsa delle navi delle Ong, si capisce bene che le morti nel Mediterraneo non sono il frutto di una tragica fatalità, ma l’esito ultimo di scelte politiche ben precise.

Testo a cura di Sergio Bontempelli

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