Siena, così tramontano le zone rosse addio al Pd per astio e stanchezza

martedì
26 giugno 2018
Testata:
REPUBBLICA
Pagina:
2

II reportage La città passata a destra per 378 voti

In Toscana l’epicentro della disfatta dem, arrivata pure in Emilia. “La voglia di cambiare spinge i vecchi comunisti da Salvini”. E non conta nulla aver rimesso in piedi il Comune

Il cameriere albanese ha ancora negli occhi la scena della sera prima. Era mezzanotte quando il nuovo sindaco Luigi De Mossi, dopo aver espugnato una delle ultime roccheforti del partito democratico, ha attraversato piazza del Campo fiero, con la sciarpa bianconera del Siena calcio che gli pendeva dalla vita. Vive e lavora qui da molto tempo, quel cameriere. Abbastanza per averne viste di tutti i colori. Ma anche per sapere che questa è diversa da tutte le altre.

Una dopo l’altra cadono nella fu rossa Toscana le ultime fortezze della sinistra, ormai però da un bel pezzo declassate a piccole ridotte vacillanti. Cade Pisa. Cade Massa. Cade infine anche Siena. Eppure c’è chi, come Marilù Chiofalo, vicesindaca dem di Pisa, non crede a un caso toscano: «Il problema ha una dimensione nazionale. L’errore è aver inseguito la destra su molti terreni, come quello della sicurezza. Senza riuscire a dare risposte di sinistra a questa emergenza, sul piano del lavoro, dell’educazione, dei servizi sociali…» Certo lo smottamento non è stato un fenomeno improvviso. Basterebbe ricordare i casi di Livorno e Carrara, conquistate dal Movimento 5 stelle, oppure quelli di Pistoia e Grosseto, finite alla destra.

Ma qui, avverte quel cameriere albanese, c’è qualcosa di diverso. E’ forse “il livore che si annusa in giro”, come dice l’ormai ex sindaco di Siena Bruno Valentini, che dà il senso del cambio di marcia. Il livore che ha fatto prevalere nettamente il centrodestra nei quartieri dove abitano molti stranieri, neppure tutti extracomunitari. Rumeni, qualche albanese… Il livore che ha riempito «fino all’inverosimile la piazza del comizio di Matteo Salvini venuto in Toscana determinato a prendersi lo scalpo della sinistra», come racconta ancora sbalordito il giovane segretario del Pd di Massa Luca Perinelli. Al posto del temuto diluvio grillino, ecco la valanga leghista, sempre più impetuosa man mano che il ministro dell’Interno martellava sui migranti, sui rom, sugli ambulanti, perfino sui vaccini.

A complicare l’offensiva senese dei 5 stelle c’è stato caso di Salvatore Caiata, il neoeletto onorevole sconfessato dai vertici dei Movimento proprietario del Potenza Calcio e di alcuni locali a piazza del Campo. Ma anche senza
quell’incidente di percorso i grillini difficilmente avrebbero potuto ripetere l’exploit di Livorno o Carrara. A Pisa, dove alle politiche aveva già preso entrambi i collegi uninominali di Camera e Senato, la Lega è arrivata a sfiorare il 25 per cento, superando il Pd. Qui hanno pesato molto le divisioni interne alla sinistra, come sa bene Paolo Fontanelli, sindaco pisano per dieci anni e parlamentare pd prima di passare a Liberi e uguali. Alle politiche del 4 marzo Leu aveva raccolto quasi il 9 per cento. Con i numeri del centrodestra, però, nemmeno un ritrovato accordo a sinistra sarebbe bastato. Non sono stati sufficienti, per esempio, a Massa, «dove abbiamo perso dappertutto, nonostante fossimo in coalizione con Leu. Il vento leghista ha preso a soffiare forte anche nei Comuni», ammette Perinelli.

Il fatto è che se non esiste un caso toscano, c’è in atto un profondo cambiamento del rapporto fra il partito democratico e il suo elettorato. Soprattutto qui, dove l’ex Partito comunista ha governato per sette decenni praticamente senza soluzione di continuità. Chiamatela stanchezza. Chiamatela voglia di cambiare. Chiamatela incertezza e paura del futuro, che spinge «i vecchi comunisti addirittura a votare per Salvini», azzarda Valentini. Fatto sta che il legame si è incrinato pian piano fino a spezzarsi e il sistema sta venendo giù di colpo. Il sindacato e le cooperative hanno smesso di esercitare il ruolo di cinghia di trasmissione, che qui ancora funzionava. Come del resto in Emilia-Romagna, dove la potente Manutencoop ha festeggiato gli ottant’anni abbandonando la Lega delle cooperative. La crisi, la mancanza di risposte e una classe dirigente incapace di darle, che sfoga la sue incapacità nelle lotte di potere interno, spesso di piccolo cabotaggio, aumentando il proprio distacco dalla realtà. Il cambiamento è profondo e forse era anche prevedibile. Quello che da queste parti si poteva difficilmente prevedere, però, era che prendesse il volto di Salvini.. Da questo punto di vista il caso di Siena è quello che meglio descrive le cause della frana. Qui il Pd un tempo superava il 50 per cento. Poi scese al 40. Alle politiche del 4 marzo si è fermato al 31. Poi, alle comunali, è precipitato al 19. Valentini allarga le braccia: «Abbiamo rimesso in piedi il Comune, che era in condizioni finanziarie disastrose, la città si è ripresa, il turismo è aumentato del 21 per cento. Tutto inutile». Inutile anche l’apparentamento con la lista dell’ex sindaco Pierluigi Piccini. Mentre il suo partito, segretario locale Simone Vigni, se non gli ha proprio remato contro poco ci è mancato. «Invece Salvini non ha pagato dazio nemmeno per aver attaccatoivaccini proprio qui, nella città dove i vaccini danno da lavorare a quattromila persone, ormai il doppio degli occupati senesi del Montepaschi», si rammarica Valentini. Già, quella banca. E quando gli si chiede se la colpa del disastro elettorale non sia pure del segno lasciato dal crac del Monte, di cui la sinistra porta enormi responsabilità, l’ex sindaco che della banca è un dipendente inpensione come quasi tutti gli ultimi sindaci, ricorda (pietosamente) che l’istituto «è tornato in utile». Senza dire, aggiunge, che pure il suo avversario ha avuto a che fare con quella banca, come consigliere di amministrazione della società immobiliare Sansedoni.

Il crac del Monte è stato un formidabile acceleratore della stanchezza ormai manifesta degli elettori, trasformandola rapidamente in astio. Astio per l’establishment, l’uso spregiudicato del potere, gli interessi personali e di partito (se non di corrente), gli egoismi e le furbizie. Nel 2012 la giunta del pd guidata da Franco Ceccuzzi cadde perché il sindaco (allora azionista di riferimento della banca tramite la fondazione) si era rifiutato di sostenere perla vicepresidenza del Monte Alfredo Monaci, fratello dell’ex capo locale della Margherita, l’ex presidente del consiglio regionale Alberto Monaci. E gli ex margheritini in consiglio comunale votarono contro il bilancio. Oggi quella storia si ripete. Valentini perde per 378 voti, mentre il suo avversario incamera l’appoggio della lista civica del figlioccio di Monaci, Alessandro Pinciani, che al primo turno ne aveva presi circa 700. «Cinque anni fa Monaci mi sosteneva, Poi non ho acconsentito a nominare Pinciani assessore ai Lavori pubblici…», racconta Valentini. Una piccola bega locale. Che però spiega molte cose del male oscuro della sinistra. In questo caso, anzi, quasi tutto.

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