Un intervento sul femminicidio

Alessandra Iacullo, Ilaria Leone, Chiara Di Vita sono le ultime tre donne vittime di un fenomeno contemporaneo chiamato con un neologismo poco elegante ma efficace, femminicidio. Il termine è entrato nel lessico mediatico dal 2009, quando il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani per le 500 donne violentate e trucidate nel 1993 nel nord del paese.
Secondo dati diffusi dal Telefono Rosa le donne uccise nel 2012 sono state 124 e nel 2013 finora la media è stata di un femminicidio ogni tre giorni. Non è un fenomeno solo italiano, ma l’Italia è tra i paesi in vetta alla classifica per il numero di donne ammazzate. Come denunciava nel 2011 Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, il femminicidio «è la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni».
Questa violenza ci interroga, ci chiede una spiegazione. La risposta più semplice e rassicurante rinvia alle caratteristiche antropologiche della specie umana: aggressività, violenza, prevaricazione sono insite negli esseri umani, è sempre stato così. Ma questa risposta non ci spiega perché il fenomeno è in aumento costante. Nel 2010 127 donne sono state uccise, il 6,7% in più dell’anno precedente; nel 2011 un rapporto Eurispes ha stabilito che dal 2002 i femminicidi erano aumentati del 300%.
Le cifre attestano che nella società contemporanea sono avvenuti dei cambiamenti culturali, è cambiato il rapporto tra il pensabile e il possibile.
«Il pensabile – affermano Miguel Benasayag e Gérard Schmit in L’epoca delle passioni tristi – è l’insieme degli atti che ogni membro di una cultura o di una società o di una religione accetta in quanto rispettosi dei suoi fondamenti, come conformi o adatti alla vita. Il possibile è un insieme molto più vasto: per esempio, distruggere le case degli altri, violentare le donne, praticare l’incesto, eccetera». Il campo del pensabile indica il complesso dei divieti in base a cui può fondarsi ed esistere qualsiasi società umana, senza questa restrizione del campo del possibile la convivenza civile è destinata a venir meno. Il femminicidio ci dice innanzitutto che le frontiere tra il possibile e ciò che lo limita (il pensabile), si stanno allargando: nella nostra società è sempre più possibile uccidere una donna.
Un tempo uccidere donne e bambini era considerato segno di scarsa virilità e scarsa forza, un “vero uomo” non poteva uccidere coloro che erano considerati i deboli per eccellenza. Oggi il paradigma appare ribaltato, anzi stravolto, se si pensa che nella stragrande maggioranza dei casi gli assassini sono all’interno della famiglia: mariti, partner, parenti, ex, e persino figli.
Cos’è successo?
Non è, come spesso si afferma, “colpa” delle stesse vittime, delle donne che “hanno alzato la testa” con le loro rivendicazioni, con il loro desiderio di libertà e di affermazione. È il frutto di una più generale, progressiva accettazione della violenza come strumento di soluzione dei conflitti personali e delle tensioni sociali; è il frutto di un più che ventennale battage mediatico che propone una relazione uomo donna basata sulla gerarchia ed esalta una sessualità ridotta a prestazione sempre più omologata a modelli pornografici in cui la violenza ha ampio spazio. È frutto di una società che instilla nelle persone sempre più insicurezza.
Non è di nuove leggi che c’è bisogno, di un inasprimento delle pene, c’è bisogno di cambiare innanzitutto il discorso pubblico; tutte le agenzie di formazione e di informazione dovrebbero diffondere modelli di mascolinità e femminilità basati sul confronto pacifico e sulla collaborazione, in cui l’affermazione personale non coincidano con il possesso delle persone e delle cose. C’è bisogno infine di tornare a provare ribrezzo per gli uomini violenti, di spiegare soprattutto alle ragazze che essere chiamate «puttana» o ricevere uno schiaffo non è in nessun caso un segno d’amore, ma di una personalità debole che nella violenza verbale, fisica e psicologica afferma la sua incapacità di essere un “vero uomo”, cioè una persona capace di confrontarsi con la vita senza annientarla.

Tiziana Noce per una città in comune

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