Il 17 giugno sarà una data importante per tutti quei territori che, dall’Emilia-Romagna a Messina, si mobiliteranno alla luce della catastrofe climatica e sociale, affinché i governi locali e nazionali invertano la rotta di sfruttamento e svendita della cosa pubblica e investano, finalmente, in una sola grande opera: la transizione ecologica, dalla sfera produttiva alle infrastrutture fino alla mobilità.
Le immagini del disastro che si è abbattuto nel mese di maggio in Emilia Romagna ci hanno ancora una volta mostrato i limiti di un modello di gestione del territorio fatto di cementificazione e nuove costruzioni per soddisfare disegni e appetiti dei gruppi immobiliari e dei grandi attori della logistica, caratterizzato dalla costrizione dei corsi d’acqua per assecondare gli assetti infrastrutturali utili alla circolazione di persone e merci su strada a beneficio della mobilità privata e dei mezzi a combustione fossile insieme al depotenziamento dei trasporti pubblici.
Un modello di gestione accompagnato e rafforzato da un discorso pubblico che oscilla tra la negazione del carattere sistemico e irreversibile del cambiamento climatico e la criminalizzazione delle attiviste e attivisti che denunciano l’immobilismo dell’intera classe politica rispetto alle misure da prendere per la giustizia climatica e sociale.
Questo approccio trova un’applicazione esemplare nella città di Bologna, dove da un lato il progetto dell’ampliamento del passante autostradale non conosce ripensamenti da parte dell’amministrazione di sorta neanche di fronte alle obiezioni più ragionevoli e da un altro lato vengono sgombrate due occupazioni ecologiste che stavano animando la città delle due torri e dalle quali sono partite tante delle delegazioni di volontar3 che hanno sostenuto le popolazioni alluvionate nelle zone più colpite.
Nonostante ciò la mobilitazione non s’interrompe e né smobilita, forte di esperienze di grande rilevanza.
Fin dallo scorso autunno, anzitutto, l’Emilia Romagna ha stretto il “patto dell’Appennino” con i lavoratori della GKN in lotta per allargare la riflessione sulla reindustrializzazione del sito di Campi Bisenzio alla cura del territorio e a un ripensamento della produzione che abbia a cuore la difesa dell’ambiente, la liberazione di tempi di vita da trascorrere in ambienti sicuri e salubri mediante nuovi equilibri e nuovi investimenti, con un protagonismo dell’intervento pubblico che non si limiti a sottoscrivere le raccomandazioni dell’Agenda 2030 ma che metta in sicurezza i territori e garantisca i diritti di chi li vive.
Nell’ottobre scorso, inoltre, le strade di Bologna sono state riempite da 30.000 persone che hanno manifestato contro il passante autostradale di Bologna, contro la nuova seggiovia di Porretta, per una valorizzazione delle comunità e delle attività dei centri appenninici che non si limiti alla sola riconversione turistica ma che tenga al centro le persone e le pratiche di cura delle terre e dei saperi contadini.
La nuova data di questa convergenza di lotte e di progetti sarà appunto quella del 17 giugno quando si ribadirà che sui nostri territori non si stanno abbattendo fenomeni atmosferici eccezionali, ma che stiamo entrando in una nuova normalità terrificante che si può affrontare soltanto con un cambio di paradigma che poco ha a che fare con le abitudini individuali ma che deve riguardare un nuovo corso di intervento pubblico, a più livelli.
Tra le misure che ci pare manchino l’obiettivo di realizzare concretamente questo cambio di passo nel senso di una maggiore sostenibilità ambientale e sociale, c’è anche il ponte sullo Stretto di Messina, un’opera con alle spalle decenni di progetti e di finanziamenti faraonici sostenuti dalla retorica dell’unità nazionale sempre strumentale ma che oggi è resa ancor più falsa dal procedere a lunghi passi dell’autonomia differenziata, che getterà le regioni meridionali in un ghetto dal quale sarà impossibile uscire.
Dal punto di vista logistico ci convince invece l’immagine evocata da Legambiente quando descrive il ponte sullo stretto come “una cattedrale nel deserto della mobilità”, in particolare quella del sud Italia, ben lontana dalla piena elettrificazione ed insufficiente a livello di collegamenti e qualità dei convogli. Ma il nostro paese non può permettersi i costi finanziari e ambientali dell’ennesima opera inutile e le cittadine e i cittadini sono i primi a saperlo: sono quasi 18 anni che il movimento No Ponte è in lotta per un’altra idea di mobilità e di governo del territorio e aderisce anch’esso alla mobilitazione del 17 giugno di mobilitazione, dopo averlo anticipato con la contestazione del Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini durante la sua ultima visita a Messina.
Il governo intende stanziare un milione di euro l’anno, dal 2024 al 2031, per propagandare un’opera semplicemente devastante dal punto di vista ambientale, oltre che terreno fertile per le grandi organizzazioni mafiose internazionali.
Come Una città in comune aderiamo alle 2 manifestazioni e riteniamo che sia da evidenziare e valorizzare il filo rosso tra queste due piazze – la prima convocata da Bologna Climate Justice e la seconda dal Movimento no Ponte – e ci uniamo all’appello lanciato dai presidii e dalle comunità territoriali a scendere in piazza per rivendicare politiche pubbliche totalmente ripensate nel senso della decarbonizzazione della produzione e dei trasporti e la messa in sicurezza dei nostri territori, di politiche che valorizzino il recupero di edifici e spazi dismessi piuttosto che nuove costruzioni, di una nuova centralità dei corsi d’acqua come risorse essenziali e non come traiettorie da piegare ai bisogni antropici e di investimenti nel trasporto pubblico a livello nazionale per mettere concretamente il paese in rete.