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“Oggi siamo a occuparci dei profughi ma finché la questione kurda non sarà risolta i problemi si ripresenteranno ciclicamente. Oggi l’ISIS, domani qualcos’altro”. Così il sindaco di Suruc che ha incontrato gli osservatori italiani
Il Sindaco di Suruc, insediamento risalente all’epoca sumera che conta oggi una sessantina di migliaia di abitanti, si riunisce ogni mattina con il coordinamento per l’emergenza profughi. Oggi ha trovato il tempo per incontrare anche noi, e in inglese ci ringrazia per essere venuti in occasione del Newroz: la presenza delle delegazioni internazionali fa sentire i kurdi meno soli e – parole sue – infonde coraggio e forza contro i fondamentalismi.
Quasi più per gesto di cortesia nei nostri confronti che per un’utilità pratica, rinnova alle autorità governative turche la richiesta di farci passare il confine. Sappiamo già che non si smuoverà niente, per i soliti “motivi di sicurezza”, anche se a Kobane il Newroz, l’occasione più a rischio di attentati, è passato; strano poi che, se la ragione è la sicurezza, non sia stato consentito neanche alle autorità del Rojava di passare il confine nell’altro senso per incontrarci…
I kurdi contano sulla pressione internazionale perché sia allentato quello che il sindaco definisce un pluridecennale embargo di fatto
L’emergenza profughi si sta allentando, ormai buona parte dei rifugiati è tornata oltreconfine, è lì che si sposta il problema: non solo per l’accoglienza ma per la ricostruzione. A Kobane mancano la corrente elettrica, le fognature, le infrastrutture importanti sono andate distrutte in mesi di battaglia casa per casa. Servono materiali, macchinari, personale specializzato: come ricostruire se il confine è chiuso?
I kurdi contano sulla pressione internazionale perché sia allentato quello che il sindaco definisce un pluridecennale embargo di fatto, con un paese attraversato dai confini di quattro stati spesso con gravi tensioni l’uno con l’altro, nessuno dei quali somiglia a una democrazia. Confini artificiali tracciati a tavolino dalle grandi potenze che dopo la prima guerra mondiale smembrarono l’impero ottomano, che hanno creato minoranze destinate a subire le repressioni di ogni governo e spesso diviso letteralmente le famiglie: è assai frequente avere parenti a portata di sguardo ma visitabili solo con il passaporto, e questo spiega in parte perché molti dei profughi dalla Siria siano stati ospitati nelle case dei loro congiunti. Di fatto, i legami e la solidarietà hanno fatto sì che la maggioranza dei profughi non sia stata accolta nelle tende e nei campi, ma nelle abitazioni private.
Si preferisce il disagio dei campi municipali assai più modesti, che pur nelle ristrettezze sono un’oasi di libertà
Nei campi gestiti dalla municipalità gli aiuti faticano ad arrivare: l’organizzazione statale turca li blocca. I finanziamenti vengono convogliati sull’unico campo gestito dalla Protezione civile turca, che ha finito per diventare un enorme campo quasi di lusso, ma quasi vuoto. I profughi kurdi hanno preferito rinunciare ai (relativi) comfort per non dover continuamente sottostare alla vigilanza delle guardie turche, rimanere isolati e subire, dopo essere scampati all’ISIS, l’ultima beffa: nel campo turco la scuola dei bambini si tiene solo in turco o in arabo, non in lingua kurda. Si preferisce il disagio dei campi municipali assai più modesti, che pur nelle ristrettezze sono un’oasi di libertà: sono organizzati in base a principi di autogestione e si è liberi di parlare e imparare la propria lingua madre, ci si sente a casa propria.
Deve cessare la politica di assimilazione e repressione delle minoranze in tutti gli stati del Medio Oriente
Oggi siamo a occuparci dei profughi, ma, dice il sindaco, finché la questione kurda non sarà risolta i problemi si ripresenteranno ciclicamente. Oggi l’ISIS, domani qualcos’altro. L’ISIS è internazionale, e internazionale deve essere la risposta per sconfiggerlo; ma deve finalmente cessare la politica di assimilazione e repressione delle minoranze in tutti gli stati del Medio Oriente. In Siria i kurdi oltre a dover interfacciarsi con lo Stato solo in arabo spesso non venivano riconosciuti come cittadini; la repubblica islamica dell’Iran continua le impiccagioni dei militanti…
Salutiamo il Sindaco consegnandogli un piccolo carico di medicinali raccolti da Legambiente della Campania e portati qui dal suo omologo di un paesino campano di montagna, poi facciamo di nuovo tappa al centro culturale. Due ragazzi suonano e cantano: impossibile capire parole oltre a “Kobane” e “YPG”, nel colmare le lacune con l’immaginazione la mente va alle chanson de geste medievali, con cui si celebravano in musica le epiche imprese di eroi e paladini.
Misenter è un piccolo villaggio con case di fango e animali da cortile. Kobane e la sua collina si vedono benissimo in questa giornata di sole. Qui i kurdi hanno allestito un piccolo museo, intitolato alla memoria di due ragazze: una comandante delle YPJ caduta in battaglia, e un’attivista kurda uccisa dalla polizia turca mentre cercava di avvicinarsi al confine. Sopra scaffali in cui i libri sono ordinatamente catalogati ed etichettati, le pareti mostrano foto dei caduti nella battaglia per Kobane. Il termine “martiri”, con cui i kurdi ce li hanno sempre presentati, suona inevitabilmente ostico per le nostre orecchie; ma non abbiamo anche noi a Pisa una “Piazza Martiri della libertà”? Questione di decenni fa per noi, di giorni e di volti di amici e familiari per loro.
Ogni membro delle YPG si è scelto un nome di battaglia in kurdo. Sopra quello di Sehit “Bagok” Johnson campeggia un volto che ha poco di mediorientale, molto di anglosassone, e che abbiamo visto su Internet. Si tratta di Ashley Johnston, ex militare australiano arruolatosi qui per combattere la barbarie e caduto in combattimento. Il funerale per il volontario venuto dall’altro capo del mondo si è svolto con tutti gli onori, mentre in Australia la comunità kurda si è stretta intorno alla famiglia.
Oltre ai tagliagole raccattati dall’ISIS nel disagio sociale e psichico di tutto il mondo, ci sono stranieri anche nelle file kurde, e non si limitano ai loro quattro paesi, ai kurdi della diaspora rientrati, e agli esponenti delle altre minoranze e popoli del Medio Oriente: un inglese è morto nei combattimenti, un olandese è rientrato in patria ferito, ci sono statunitensi e (almeno) un italiano. Non certo un fenomeno di massa, si tratta quasi sempre di militari esperti, perché le YPG non cerca carne da cannone e avrebbero bisogno di armi pesanti più che di uomini, ma è difficile rimanere indifferenti al pensiero.
A Mehser, invece, non c’è quasi più nessuno: il villaggio ha smobilitato, passiamo accanto al piccolo edificio dove stava il grosso degli internazionali durante l’assedio e dove Zerocalcare ha visto quello che ha poi raccontato a tutta Italia su Internazionale. In un altro villaggio, separato da Kobane solo da un rotolo di filo spinato e da poche centinaia di metri di mine, ascoltiamo quello di cui gli abitanti sono stati testimoni.
Una frontiera assai sguarnita quando di là ci sono gli islamisti, sorvegliatissima quando ci sono i kurdi; soldati e ufficiali turchi che chiacchierano e bevono chai con i combattenti dell’ISIS; un blindato e una colonna di uomini barbuti nerovestiti che vanno verso Kobane passando tranquillamente anche davanti alle caserme turche; un edificio al di qua del confine, in territorio turco, da cui l’ISIS spara sui kurdi al grido Allah-u-akbar; ambulanze turche che vanno a prelevare i miliziani feriti e li portano negli ospedali delle città vicine, mentre i feriti kurdi muoiono dissanguati in attesa alla frontiera. Dapprima i combattenti del Daesh – come lo chiamano qui – venivano curati negli ospedali pubblici; poi, dopo l’arrivo di giornalisti e osservatori internazionali, l’aiuto si è fatto più discreto e le cure portate di nascosto.
Il trasporto di farmaci dall’Italia è difficoltoso e può finire per creare più problemi di quanti non ne risolva
Alla sera le ultime energie prima della partenza servono a organizzarsi per il ritorno in Italia: come è possibile far diventare concreta la solidarietà? Al di là della buona volontà – ad esempio, il trasporto di farmaci dall’Italia è difficoltoso e può finire per creare più problemi di quanti non ne risolva, oltre magari a non rispondere alle priorità – è importante che gli aiuti rispondano alle esigenze espresse dal Rojava, che non si concentrino sulla sola Kobane (ad oggi è il cantone autonomo di Cezire quello con più bisogno), che siano coordinati e che seguano canali che li porteranno effettivamente a destinazione: per questo motivo la neonata sezione italiana della Mezzaluna Rossa Kurdistan farà da collettore e da riferimento. L’associazione è alla ricerca di referenti territoriali per tutta Italia; è possibile effettuare donazioni mediante banca, poste, carta di credito o Paypal.
Francesco Stea Pagliai