L’autonomia ingannevole: una riforma zoppa per i musei statali pisani

“I grandi musei devono diventare delle piccole aziende. Questa cosa farà storcere il naso a qualcuno, ma questi musei devono avere un modello gestionale che deve essere anche un po’ imprenditoriale, che non significa non garantire la salvaguardia storica del sito”.
Il Ministro della Cultura Sangiuliano ha annunciato con queste parole la scelta governativa di promuovere a istituti autonomi i musei nazionali pisani (lasciando inspiegabilmente fuori la Certosa di Calci).

Seguendo le logiche di mercato le istituzioni culturali vengono meno alla loro primaria funzione, che non è quella di fare profitto, bensì di contribuire alla crescita del cittadino. Le frasi del ministro rivendicano invece le logiche liberiste che dominano ormai ogni settore della società con risultati sempre più allarmanti. Il sistema museale nazionale, forse perché meno fruttuoso, ha più o meno resistito fino al 2014, quando la Riforma Franceschini ha riconosciuto il museo non più come ufficio di Soprintendenza, ma come istituto dotato di proprio bilancio e proprio statuto. Da allora anche i musei sono diventati piccole o grandi aziende. Questa sciagurata riforma ha concepito una rigida suddivisione gerarchica tra istituti, da cui dipende la distribuzione delle risorse e la possibilità di gestire autonomamente le stesse. In serie A giocano i 14 musei di “livello dirigenziale generale” (tra cui la Pinacoteca di Brera, le Gallerie dell’Accademia a Venezia, gli Uffizi, il Parco archeologico del Colosseo, Pompei e la Reggia di Caserta), quelli che attraggono più visitatori. Nella serie cadetta giocano 46 istituti “di livello dirigenziale non generale”: la bozza di riforma già approvata dal Consiglio dei Ministri ha infatti esteso il numero totale di musei dotati di una certa autonomia e tra i “promossi” troviamo anche i Musei nazionali di San Matteo e di Palazzo Reale. Mentre per gli istituti di serie A la nomina del direttore avviene tramite bandi ministeriali, per quelli di serie B l’incarico viene conferito dal Direttore Generale dei Musei, assieme al Consiglio d’amministrazione e al Comitato scientifico.

È dunque un bene questa promozione dalla serie C alla B e dei due musei cittadini? Se guardiamo al caso della Pinacoteca di Siena, che milita già in B, dovremmo dire che non cambia assolutamente niente. Da più di un anno Axel Hémery, direttore di quella splendida collezione che raccoglie capolavori assoluti della pittura del XIV-XV secolo, è costretto a lavorare senza due dei tre “strumenti” basilari: mancano infatti Comitato scientifico e Consiglio d’amministrazione. Quest’ultimo permette all’istituzione di assumere impegni di spesa per tutto ciò che va oltre le bollette delle utenze. In mancanza di tale organo il direttore non può far niente, tuttavia può contare sulla presenza del Collegio dei Sindaci revisori, regolarmente nominati, che controllano le spese: ne consegue che l’autonomia gestionale resta di fatto una chimera, mentre i controlli sul bilancio sono paradossalmente più pressanti.

La situazione è simile in molte altre realtà museali autonome, in cui spesso mancano gli organi di supporto ai neodirettori. Si potrebbe dire: cambia nome e statuto per non cambiar niente. In conclusione in serie cadetta la situazione non pare essere molto diversa dalla cosiddetta serie C, in cui la squattrinata e immobile Direzione regionale dei Musei della Toscana lasciava San Matteo e Palazzo Reale, e ancor prima la Pinacoteca di Siena, senza personale e senza riscaldamento. Ciò che cambia, e non è poco, è il direttore, dato che la nomina è ministeriale: il rischio è non solo l’immobilismo, ma anche un controllo politico su presidi culturali imprescindibili. Altresì continua a mancare, anzi con questa “promozione” rischia di allontanarsi ulteriormente, un vero progetto per il sistema museale cittadino con biglietto unico, che comprenda anche la Certosa di Calci, su cui tanto ci siamo battuti e continueremo a farlo.

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