Tra code di paglia e colate di cemento

Sembra che a palazzo Gambacorti qualcuno abbia la coda di paglia, quando si tocca il tema della politica di cementificazione del territorio comunale. Perfino i Gatti Mézzi si sono meritati un rimbrotto formale per una loro battuta riportata da La Repubblica: “Da noi governa il Pd eppure cementificano tutto. Ma io alla mia bambina che gli lascio in futuro, l’Ikea?”. (Il rimbrotto è comparso su Pisainforma – http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=13772 – a firma dell’autorevole Giorgio Piccioni). Se la questione si potesse davvero ridurre a una battuta, si potrebbe anche lasciar correre. Tuttavia non è così e dunque ne dobbiamo parlare.
Esiste una discriminante precisa per valutare in termini politici se un progetto urbanistico è destinato all’utilità dei residenti o al vantaggio di chi investe in immobili: il rapporto tra fabbisogno di residenza e appartamenti lasciati vuoti. Se gli appartamenti vuoti sono esuberanti rispetto al fabbisogno, ciò significa che la politica edilizia che si persegue è di puro investimento.
Nella storia recente della giunta Filippeschi c’è la Variante di regolamento urbanistico del 2009. La popolazione residente risultava in decremento costante (fra il 2001 e il 2005: 89.758, 89.710, 88.964, 88.988, 88.363) ma nonostante ciò si prevedeva la costruzione di 2.378 nuovi alloggi per 5.326 abitanti virtuali. Essa andava a congiungersi con altri provvedimenti analoghi già vigenti, come il piano caserme, il progetto Chipperfield per Santa Chiara, le varianti per le residenze del Calambrone e di Porta a Mare, nonché altro ancora. Già allora si registravano più di duemila alloggi vuoti e la sommatoria si avvicinava ai ventimila abitanti virtuali. Non era difficile dedurne che gran parte dell’edificazione prevista era in realtà destinata al mercato. Nonostante che alcuni comitati cittadini spontanei, le associazioni ambientaliste, numerosi gruppi culturali e perfino la Regione Toscana si fossero espressi contro la Variante del 2009, essa fu approvata, rendendo visibile e conclamata la vocazione immobiliarista della maggioranza che ha amministrato Pisa negli ultimi anni.
Ora su tutte quelle scelte si tenta di stendere un velo pudico con l’argomento che Pisa risulta la città più verde d’Italia. Certo, Pisa è il comune più verde d’Italia, ma perché nel suo territorio ricade la Tenuta di San Rossore. Si dovrebbe anche aggiungere, per verità, che il merito risale a Pietro Leopoldo di Lorena, a Vittorio Emanuele II e ad altri dopo di loro, non certo agli amministratori presenti. Caso mai, se ci si riferisce al verde fruibile, ossia a quello prevalentemente di competenza comunale, si trova che Pisa scende al sessantasettesimo posto della medesima graduatoria di “Ecosistema urbano 2012”.
Tuttavia il vero nodo non è neppure questo. Se la bolla immobiliare non fosse esplosa nella maniera che si sa, oggi, per effetto della Variante 2009 e dei provvedimenti affini, la città sarebbe un cantiere invivibile, presa fra istituzioni pubbliche che si costruiscono la nuova sede, scuole che si demoliscono e si spostano cinquecento metri più in là, stadi trasformati in condomìni che emigrano in periferia, caserme in libera uscita, un grattacielo a Ospedaletto e nuovi appartamenti creati ovunque, al posto di tutto ciò che veniva demolito, ristrutturato o reso edificabile ex novo, metro cubo su metro cubo. E questa smisurata ammuina cementizia a chi avrebbe giovato, in termini di abitabilità?
Non al sociale, sicuramente. Si parla sempre poco dell’articolo 42 della Costituzione Repubblicana e dunque vale la pena di richiamarne il secondo comma: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.”
Una fabbrica dismessa e abbandonata non assicura nessuna funzione sociale e quindi è fuori delle garanzie costituzionali. Ma anche un fabbricato di civile abitazione costruito al suo posto e poi lasciato vuoto si trova nelle stesse condizioni. In entrambi i casi non si soddisfano due esigenze primarie, ossia il diritto al lavoro e il diritto di abitare. Se una pubblica amministrazione favorisce la costruzione di edifici che non si rendono accessibili a tutti e restano funzionali solo al mercato degli immobili, si mette fuori della logica costituzionale.
Stiamo attraversando un momento di grande difficoltà. Un patto sociale per la casa appare necessario. A fronte di 4000 appartamenti vuoti nel comune (e ancora vi si costruisce) sta chi è senza alloggio o addirittura lo perde. Si trovano in affanno perfino i piccoli proprietari, che non sono garantiti contro la morosità crescente degli affittuari e vedono vanificato il loro piccolo investimento. In questo quadro si devono cercare vie diverse, più in linea col principio costituzionale della funzione sociale della proprietà. Sarebbe stato dunque lecito aspettarsi almeno un ripensamento da parte degli amministratori uscenti. Al contrario, almanaccando un’autodifesa giostrata su statistiche di comodo e sul calcolo gelido dei metri cubi, e recriminando che nei comuni limitrofi si è costruito ancora di più (sai che gioia), ci lasciano capire che sono fuori del problema e che presumibilmente ci resteranno ancora, se qualcuno li rieleggerà.

Piero Pierotti – candidato con “una città in comnune”

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